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Corte Costituzionale, sentenza del 16 giugno 2023, n. 123
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 maggio 2022, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2022, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), per contrasto con gli artt. 3,24,54,97,103, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, «nella parte in cui dispone, anche nell'ipotesi di estinzione del reato, che il procuratore regionale della Corte dei conti possa promuovere entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale solo “nei confronti del condannato” e consequenzialmente, nella parte in cui non prevede che il procuratore regionale della Corte dei conti “promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale” anche nel caso di “sentenza di estinzione del reato”, oltre che nel caso di “sentenza irrevocabile di condanna”».
Ancora in via consequenziale la rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento ai medesimi parametri, dell'art. 51, comma 7, primo periodo, dell'Allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), «nella parte in cui non prevede che “la sentenza di estinzione del reato”, oltre alla “sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse” sia “comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato”».
1.1.– Il giudice a quo premette di essere stato investito di una domanda di risarcimento di danno all'immagine proposta dal Procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti di un dipendente dell'ANAS spa già condannato dalla stessa sezione al risarcimento del danno patrimoniale, per l'importo di euro 19.785,49, in favore del predetto ente per avere illecitamente utilizzato, per finalità personali, veicoli di proprietà pubblica di cui aveva la disponibilità per ragioni di servizio.
Riferisce la rimettente che nei confronti del medesimo dipendente era stato instaurato un procedimento penale in relazione alla imputazione di cui all'art. 314, secondo comma, del codice penale (peculato d'uso), definito in primo grado con sentenza di condanna emessa, con il rito abbreviato, il 18 maggio 2016 dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Arezzo e, nel grado successivo, con sentenza del 9 settembre 2019, n. 4582, con la quale la Corte d'appello di Firenze aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per intervenuta prescrizione.
1.2.– La Procura erariale, in ragione «a suo dire» dell'accertamento di responsabilità comunque contenuto nella sentenza di primo grado, aveva, dunque, agito per il risarcimento per danno all'immagine dinanzi alla corte contabile, quantificando il pregiudizio sofferto dall'ente di appartenenza, ai sensi dell'art. 1, comma 1-sexies, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), in misura pari al doppio dell'utilità patrimoniale goduta dal dipendente, già oggetto del riconosciuto risarcimento per danno erariale.
Espone il giudice rimettente che, pur non risultando, quindi, formalmente in atti una pronuncia irrevocabile di condanna, presupposto «in astratto» richiesto, per la proponibilità dell'azione di danno all'immagine della pubblica amministrazione, dal «coacervo normativo» di cui all'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, e modificato dall'art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141, secondo il Procuratore regionale, la sentenza dichiarativa della prescrizione avrebbe comunque implicato «l'avvenuta verifica dell'assenza di cause di proscioglimento, ai sensi dell'articolo 129 del codice di procedura penale. Pertanto, non difetterebbe il provvedimento giurisdizionale irrevocabile contenente una statuizione sulla sussistenza del reato e sulla responsabilità dell'imputato», come richiesto dalla norma citata.
1.3.– La Corte contabile ritiene la non praticabilità della lettura della norma propugnata dal pubblico ministero attore, a fronte della chiarezza del dato letterale, nonché della sua esegesi come formulata dalla giurisprudenza della sezione adìta (è richiamata Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, sentenza 2 dicembre 2021, n. 443) e da quella «prevalente, anche se non univoca», della Corte dei conti in sede di appello (sono citate Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale di appello, sentenze 12 luglio 2021, n. 233 e 15 dicembre 2020, n. 298).
Alla stregua di tale interpretazione, la lettera del disposto di legge sarebbe, dunque, preclusiva, ai sensi dell'art. 12 delle Preleggi, di una interpretazione analogica volta a sopperire ad una lacuna in realtà inesistente.
Inoltre, difetterebbe in radice anche lo stesso presupposto dell'analogia. Non sarebbe, infatti, corretto affermare che la sentenza estintiva del reato per prescrizione contenga l'accertamento della responsabilità dell'imputato, come si vorrebbe desumere dal comma 2 dell'art. 129 del codice di procedura penale. Tale disposizione prevede solo che, qualora ricorra una causa di estinzione del reato, il giudice pronunci una sentenza di assoluzione se «dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato». La non ricorrenza di alcuna di tali ipotesi non comporta, però, l'assimilabilità alla situazione richiesta per la sentenza di condanna dall'art. 533 cod. proc. pen., a mente del quale la responsabilità penale deve essere accertata «al di là di ogni ragionevole dubbio».
1.4.– Il giudice a quo ripercorre la giurisprudenza con cui la Corte dei conti ha riconosciuto la risarcibilità del danno all'immagine della pubblica amministrazione e passa in rassegna i contenuti della figura civilistica dell'abuso dell'immagine altrui di cui all'art. 10 del codice civile, cui aveva attinto la giurisprudenza contabile per dare ingresso alla voce risarcitoria in esame ove esigibile dall'erario, con la quale si riconosceva, prima della affermata generale applicabilità dell'art. 2059 cod. civ., il ristoro di un danno «dall'indubbia natura non patrimoniale, sia pure con marcati risvolti patrimoniali astratti e indiretti», che, se anche in apparenza non comporta una diminuzione patrimoniale della pubblica amministrazione, resta suscettibile di una valutazione economica in quanto finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (viene citata Corte di cassazione, sezioni unite, ordinanza 2 aprile 2007, n. 8098).
1.5.– Il Collegio contabile, nel dare conto della cornice normativa di riferimento, approda quindi alla disamina del «paradigma autonomo dal modello civilistico» definito dall'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, che, nel normare la figura, ha fissato i presupposti di proponibilità dell'azione di danno pubblico all'immagine, stabilendo che essa è esercitata dalle procure della Corte dei conti «nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97» pur formalmente abrogato, e, quindi, solo ove intervenga la trasmissione alle competenti procure regionali di sentenze irrevocabili di condanna per i delitti contro la pubblica amministrazione.
1.5.1.– La legittimità di tale limitazione – prosegue il giudice a quo – è stata confermata da questa Corte con la sentenza n. 355 del 2010, che ha dato conto della peculiarità della fattispecie del danno all'immagine della pubblica amministrazione, la quale, a differenza dell'ipotesi civilistica relativa al danno all'immagine del privato, non è integrata dal pregiudizio ad un bene della personalità qual è il diritto all'immagine, espressione di un diritto fondamentale, ma dalla lesione del prestigio, ossia dal vulnus recato alla cura concreta degli interessi che rientrano nella sfera pubblica.
Sottolinea il Collegio rimettente che «il perseguimento dell'interesse curato da una pubblica amministrazione presuppone un minimum di cooperazione dei consociati». Ne conseguirebbe che, là dove risulti negativamente incisa la rappresentazione goduta da ogni struttura pubblica presso la collettività quale esito della condotta di amministratori o dipendenti che operino in difformità dall'azione definita dall'art. 97 Cost., si realizzerebbe la lesione del buon andamento dell'ente di appartenenza più che di un bene non patrimoniale dell'ente.
1.5.2.– Espone ancora il giudice a quo come valga a connotare in termini di specialità il danno all'immagine della pubblica amministrazione la stessa quantificazione voluta dal legislatore, con il criterio fissato nell'art. 1, comma 62, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), nella misura pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente, diversa da quella prevista per l'omologa figura civilistica.
1.6.– Si rileva nell'ordinanza di rimessione che il codice di giustizia contabile, da ultimo, «con l'art. 51, comma 6, applicabile alla fattispecie in esame in forza dell'art. 2 del decreto legislativo n. 174 del 2016, ha dettato una formulazione apparentemente differente dei presupposti della relativa azione erariale disciplinando la trasmissione delle sentenze di condanna con il citato art. 51, comma 7 e abrogando il primo (ma non il secondo) periodo del citato comma 30-ter, nonché il sempre già citato art. 7 della legge n. 97 del 2001».
Si richiama al riguardo un autorevole indirizzo che vorrebbe la nuova norma riferibile, in modo più ampio, a tutti i delitti commessi a danno delle pubbliche amministrazioni, indipendentemente dalla tassonomia dell'interesse tutelato, con una rimarcata portata innovativa su cui pure si era espressa, incidenter tantum, questa Corte. Si citano sul punto la ordinanza n. 168 del 2019 e la sentenza n. 191 dello stesso anno, che – nell'accennare, la prima, «al carattere sostanzialmente modificativo, e non ricognitivo, della norma introdotta in sede di codificazione della procedura», e nel lasciare all'interprete, la seconda, l'individuazione delle fattispecie integrative delle ipotesi tassative di risarcibilità del danno all'immagine – valorizzerebbero le linee di un sistema in cui resta salda la necessità, quale condizione per la risarcibilità di tale danno, di una sentenza irrevocabile di condanna.
1.7.– In definitiva, ferma la non superabilità in via interpretativa del presupposto processuale dell'azionabilità del danno pubblico all'immagine, il giudice a quo sospetta il contrasto con i parametri evocati della normativa in questione nella parte in cui determina l'impossibilità di agire per il risarcimento del danno alla immagine della PA in sede contabile ove il reato sia estinto per prescrizione.
1.8.– In punto di rilevanza, il giudice a quo espone che, essendo quello commesso nel caso in esame un reato contro la pubblica amministrazione, in difetto della censurata preclusione processuale ben potrebbe trovare accoglimento il richiesto risarcimento del danno in favore dell'amministrazione.
1.9.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente, previa disamina dei principi affermati da questa Corte (sono citate le sentenze n. 191 del 2019 e n. 355 del 2010, e l'ordinanza n. 168 del 2019), deduce di non voler porre in discussione la scelta legislativa limitativa dell'azionabilità del danno all'immagine, «ma le modalità con cui, in concreto, tale opzione è stata disciplinata».
Sarebbe, infatti, giustificata una disciplina che preveda l'esercizio dell'azione contabile di danno rispetto ad un determinato catalogo di reati, e, di conseguenza, richieda l'irrevocabilità della relativa sentenza penale di condanna, ma non invece una previsione che «per il diverso assetto normativo» o «per situazioni oggettivamente non dominabili» attribuisca rilievo alla durata del processo penale e all'effetto estintivo prodotto sul reato.
Tale previsione normativa si porrebbe in contrasto con «il combinato disposto dei precetti costituzionali rappresentati dall'articolo 3 (interpretato sia alla luce del canone di uguaglianza che di quello di ragionevolezza della limitazione) e dall'articolo 54 della Costituzione», in quanto, pur a fronte di condotte di pari disvalore tenute da soggetti titolari di pubbliche funzioni, determinerebbe conseguenze differenti in ragione del mero decorso del tempo «afferente a un diverso (ma connesso) procedimento».
Sarebbe poi vulnerato l'art. 24 Cost., perché il censurato meccanismo processuale vedrebbe lesa la possibilità per la procura erariale di agire in giudizio per un credito risarcitorio, con il conseguente venir meno della posta azionata, per una irragionevole scelta legislativa.
L'estinzione del reato – si rileva nella ordinanza di rimessione − presuppone in ogni caso la lesione del bene protetto dalla norma penale in conseguenza di una condotta che non viene punita per ragioni di politica criminale, in un contesto in cui il reato stesso, pur estinto, continua comunque a produrre effetti giuridici (si cita l'art. 106, primo comma, cod. pen. sugli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato).
Il Collegio rimettente richiama quindi i principi affermati da questa Corte (è citata la sentenza n. 182 del 2021) con riferimento a un sistema che, mentre nel vigore del codice penale del 1930 vedeva l'assetto delle relazioni tra processo civile e penale improntato al principio di preminenza della funzione giurisdizionale penale, una volta caduta la regola della pregiudizialità penale (che imponeva per l'art. 3 cod. proc. pen. del 1930 la sospensione del giudizio civile sino al passaggio in giudicato della sentenza penale), vede il processo civile proseguire autonomamente (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.), salve le ipotesi eccezionali in cui il danneggiato abbia proposto la domanda in sede civile dopo essersi costituito parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75, comma 3, cod. proc. pen.).
A differenza del previgente sistema, il quale stabiliva che la pronuncia in sede penale avesse efficacia vincolante anche nel giudizio civile di danno, il nuovo, rileva il giudice a quo, stabilisce la diversa regola per cui il giudicato penale di assoluzione non ha efficacia nel giudizio civile se in questa sede il danneggiato, ai sensi dell'art. 75, comma 2, cod. proc. pen., ha esercitato l'azione.
1.10.– Nella definita cornice normativa la Corte contabile toscana deduce l'irrilevanza delle cause estintive del reato sugli effetti civili e la possibilità per il giudice dell'impugnazione penale di pronunciarsi in ordine alle consequenziali statuizioni civili, ove vi sia stata costituzione di parte civile.
Si tratta di possibilità invece non esercitabili in caso di danno pubblico all'immagine, con l'effetto che il sistema, sospettato perciò di illegittimità costituzionale, finisce per riprodurre la “pregiudizialità penale” declinata, tuttavia, in modo ancor più “forte” di quello previgente nei rapporti tra giurisdizione civile e penale, orientando la proponibilità dell'azione contabile di danno anche nei casi in cui, mancando una sentenza irrevocabile di condanna, l'azione penale resti caducata all'esito del tempo decorso successivamente ad una sentenza di condanna di primo grado.
Una lettura combinata dell'art. 24 Cost. con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.) renderebbe ancora più manifesta, per la rimettente, la violazione del primo parametro facendo dipendere l'esito dell'azione erariale, a fronte di condotte lesive dell'immagine della PA, da «un dato processuale estrinseco» che sfugge alla governabilità della parte pubblica e attribuisce ulteriori conseguenze all'indebita protrazione del giudizio penale per l'imputato, che si avvantaggia, insieme alla prescrizione, della non proponibilità dell'azione contabile.
1.11.– Risulterebbe altresì violato l'art. 97 Cost., che tutela il buon andamento, anche finanziario, della pubblica amministrazione e costituisce il fondamento della risarcibilità del danno all'immagine per il versante pubblico.
1.12.– Ancora, la previsione censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 103, secondo comma, Cost., da cui discende il principio dell'effettività della giurisdizione contabile, riconosciuto dall'art. 2 cod. giust. contabile, secondo il quale l'astratta spettanza di un credito della parte pubblica non può essere posta nel nulla in seguito al decorso del tempo in un altro, sia pure presupposto, procedimento giurisdizionale.
Il descritto fumus di illegittimità costituzionale, precisa il giudice a quo, coinvolge la totalità delle ipotesi di estinzione del reato, oltre al caso, rilevante nella specie, della prescrizione del reato in appello, successivamente alla sentenza di condanna di primo grado, in quanto esse presentano il medesimo modo di operare.
1.13.– L'art. 7 – composto da un unico comma − della legge n. 97 del 2001, si sottolinea ancora nella ordinanza di rimessione, pur formalmente abrogato, è applicabile all'epoca dei fatti in esame ed è, come tale, scrutinabile da questa Corte (si cita la sentenza n. 78 del 2013) comportando, in ogni caso, la sua illegittimità costituzionale, effetti sul presupposto normativo dell'azionabilità del danno all'immagine.
Il rinvio al citato art. 7 ha, infatti, per il Collegio rimettente, le caratteristiche di un rinvio “statico” o “fisso”, volto a offrire parametri rigidi e di agevole individuazione all'azionabilità del danno all'immagine.
Si deduce altresì che la questione posta riverbera i suoi effetti sull'art. 51, comma 7, primo periodo, cod. giust. contabile, che viene censurato in via consequenziale, in ossequio al principio in base al quale l'illegittimità costituzionale di una norma si estende alle disposizioni che presentino il medesimo contenuto lessicale (si cita la sentenza di questa Corte n. 170 del 2014).
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità e, nel merito, per la non fondatezza delle questioni.
2.1.– Sotto il primo profilo, si deduce l'assoluta mancanza di motivazione rispetto ai parametri di cui agli artt. 24,54,97 e 111 Cost., oggetto di mera enunciazione.
2.2.– Le questioni sollevate sono, altresì, per la difesa erariale, manifestamente infondate in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., essendo state già affrontate e risolte da questa Corte nel senso della legittimità della scelta operata dal legislatore di subordinare l'azione di danno all'immagine all'esistenza di una condanna penale irrevocabile, in coerenza, peraltro, con la tipicità del danno non patrimoniale, cui il danno all'immagine è riconducibile (art. 2059 cod. civ.), conclusione neppure contestata dalla rimettente.
La denunciata introduzione di una pregiudiziale penale atipica destinata a depotenziare la sfera di azione della Corte dei conti nei rapporti, quanto al danno all'immagine, tra giurisdizione ordinaria penale e giurisdizione contabile – superata invece nelle relazioni tra giudizio civile di danno e giudizio penale da un sistema ormai informato ad autonomia e separazione delle giurisdizioni –, subordinando l'azione erariale ad un fattore esterno alla fattispecie sostanziale, porrebbe una questione non fondata.
Vi è infatti una netta distinzione tra le sentenze di non doversi procedere, quelle adottate ai sensi degli artt. 529 e 531 cod. proc. pen. (prescrizione, amnistia, perdono giudiziale), e le sentenze di merito (di assoluzione o di condanna), essendo le prime meramente processuali e prive dell'accertamento idoneo al giudicato.
La sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, pronunciata all'esito del dibattimento, è, secondo l'Avvocatura, una «sentenza in ipotesi», contenendo una valutazione della punibilità in astratto, mancante di un accertamento idoneo a costituire un giudicato vincolante in successivi giudizi, come accade con la sentenza civile che, dichiarando la prescrizione del diritto, presupporrebbe, in punto di logica, sia pure in senso astratto ed ipotetico, l'esistenza in sé di quello stesso diritto.
Si tratta di scelta non manifestamente irragionevole, espone ancora l'interveniente, e coerente con la volontà, avallata da questa Corte con la citata sentenza n. 355 del 2010, di delimitare in senso oggettivo la fattispecie dannosa allo scopo di arginare quello stato di diffusa preoccupazione che una illimitata responsabilità potrebbe indurre nei pubblici funzionari, con conseguente rallentamento e perdita di efficacia dell'azione amministrativa (si citano l'ordinanza n. 219 del 2011, e nello stesso senso le successive n. 168 e n. 167 del 2019).
L'impossibilità di estendere in via interpretativa l'assimilazione delle sentenze irrevocabili di condanna a quelle di proscioglimento per estinzione del reato deriverebbe dall'art. 106, comma 1, cod. pen. (che limita siffatto trattamento in relazione alle dichiarazioni di recidiva, abitualità e professionalità nel reato), e ogni diverso richiamo contenuto nell'ordinanza di rimessione sarebbe inconferente, ferma, nel resto, l'inefficacia, ai sensi dell'art. 651 cod. proc. pen., delle sentenze di proscioglimento rispetto a quelle di condanna.
Questa Corte ha ritenuto, ricorda ancora l'interveniente, che non sia manifestamente irragionevole, né determini una ingiustificata disparità di trattamento, in contrasto con l'art. 3 Cost., la mancata estensione dell'azione di danno in sede giuscontabile a condotte illecite non costituenti reato e a quelle integranti “reati comuni” diversi dai “reati propri” e, quindi, che risponda a ragionevole discrezionalità legislativa che il risarcimento erariale del danno all'immagine venga riconosciuto a tutela del buon andamento, imparzialità e prestigio della PA, ai sensi dell'art. 97 Cost., nel caso in cui le condotte antigiuridiche si spingano ad integrare fattispecie delittuose.
La natura della responsabilità erariale per danno all'immagine resta sostenuta nei suoi contenuti multifunzionali – in cui si accostano alla funzione di riparazione del danno finalità deterrenti e/o punitive, che determinano, insieme all'insorgere dell'obbligo ripristinatorio, anche quelli derivanti da effetti sanzionatori della norma (si cita la sentenza di questa Corte n. 371 del 1998 e si richiama, rispetto alla responsabilità civile, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601) – dalla previsione, di cui al comma 1-sexies dell'art. 1 della legge n. 20 del 1994, che, nella quantificazione del danno, prevede la condanna al duplum del valore patrimoniale dell'utilità o della somma percepita dal dipendente.
Richiama ancora la difesa erariale la già ricordata sentenza di questa Corte n. 355 del 2010 ed i principi ivi espressi sulla peculiare connotazione della responsabilità amministrativa, in cui si «accentua[no]» i profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori e si stabilisce in quale misura debba ripartirsi il rischio dell'azione amministrativa tra apparato e dipendente perché la prospettiva della responsabilità sia per quest'ultimo ragione di stimolo e non di disincentivo all'azione, nell'ambito di scelte attributive alla giurisdizione contabile, ai sensi dell'art. 103 Cost., della cognizione di fattispecie di responsabilità amministrativa.
3.– È intervenuto nel giudizio il Procuratore generale della Corte dei conti.
3.1.– A sostegno dell'ammissibilità dell'iniziativa assunta, il PM contabile ricorda il diritto ad intervenire nei procedimenti dinanzi a questa Corte degli organi dello Stato e delle regioni (art. 20, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»), secondo la disciplina completata dall'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate con delibera della Corte in sede non giurisdizionale del 22 luglio 2021 e successive modifiche.
L'interveniente richiama l'indirizzo della giurisprudenza costituzionale in materia di giudizi per conflitto di attribuzione tra enti, in cui si ammette l'intervento dell'organo che ha emesso l'atto asseritamente lesivo delle attribuzioni degli altri poteri costituzionali, anche in via autonoma rispetto alla costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri (si citano le sentenze n. 184 e n. 90 del 2022, in riferimento proprio all'ammissibilità dell'intervento del Procuratore generale della Corte dei conti, nonché le sentenze n. 43 del 2019, n. 235 del 2015 e n. 337 del 2009), nel rilievo che non può essere esclusa la possibilità che l'oggetto del conflitto sia tale da «coinvolgere in modo immediato e diretto, ulteriori situazioni soggettive».
Si ricorda, ancora, che questa Corte ha ammesso l'intervento di soggetti che, pur non essendo parti del giudizio originario, sarebbero incisi, senza possibilità di far valere le proprie ragioni, dall'esito del giudizio sul conflitto, e, per tanto, si valorizza da parte dell'interveniente l'art. 4, comma 3, delle Norme integrative, con espresso richiamo alla giurisprudenza costituzionale (si citano: la sentenza n. 209 del 2022; l'ordinanza letta all'udienza del 22 ottobre 2019, allegata alla sentenza n. 253 del 2019; l'ordinanza letta all'udienza del 4 giugno 2019, allegata alla sentenza n. 206 del 2019; l'ordinanza n. 204 del 2019 e l'ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019, allegata alla sentenza n. 173 del 2019).
3.2.– Osserva ancora il Procuratore generale intervenuto che l'art. 20, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, nell'ammettere gli interventi degli organi statali e regionali, non distingue tra giudizio in via principale o incidentale, e che le Norme integrative sono orientate nel senso del riconoscimento della più ampia partecipazione al processo costituzionale, nell'affermata «spiccata oralità nell'udienza pubblica».
Se dette Norme integrative consentono l'intervento di soggetti terzi, a fortiori tanto dovrebbe essere consentito alle parti originarie, non risultando nell'ordinamento «alcuna norma che impedisca l'intervento in giudizio del pubblico ministero contabile che sia parte nel giudizio a quo», considerati l'ampiezza del contraddittorio che contraddistingue il processo costituzionale e l'effetto erga omnes della pronuncia di accoglimento.
3.3.– L'interveniente rimarca, quindi, «l'interesse concreto ed attuale della Procura generale, quale Ufficio che, a mente dell'art. 12, comma 3, codice di giustizia contabile, coordina l'attività dei procuratori regionali, di ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate dalla Corte territoriale e che impediscono, come chiarito nell'ordinanza di rimessione, l'esame del merito del giudizio a carico del convenuto, a seguito delle limitazioni della perseguibilità dei casi di danno all'immagine ai soli fatti accertati con sentenza penale di condanna divenuta definitiva».
3.4.– Nel merito il Procuratore generale richiama i contenuti dell'ordinanza di rimessione, sostenendo l'assimilazione sostanziale, ai fini dell'azionabilità del risarcimento del danno arrecato all'immagine dell'amministrazione pubblica, tra il mancato «accertamento dell'assenza di penale responsabilità dell'imputato, sotteso ad una pronuncia di proscioglimento» per estinzione del reato in seguito a prescrizione e la posizione dell'imputato condannato con sentenza definitiva, in assenza «di emergenze processuali idonee ad un'immediata assoluzione nel merito e della rinuncia dell'imputato alla causa estintiva».
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, in riferimento agli artt. 3,24,54,97,103, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., «nella parte in cui dispone, anche nell'ipotesi di estinzione del reato, che il procuratore regionale della Corte dei conti possa promuovere entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale solo “nei confronti del condannato” e consequenzialmente, nella parte in cui non prevede che il procuratore regionale della Corte dei conti “promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale” anche nel caso di “sentenza di estinzione del reato”, oltre che nel caso di “sentenza irrevocabile di condanna”».
Ancora in via consequenziale la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento ai medesimi parametri, dell'art. 51, comma 7, primo periodo, cod. giust. contabile, «nella parte in cui non prevede che “la sentenza di estinzione del reato”, oltre alla “sentenza irrevocabile di condanna, pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse” sia “comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato”».
1.1.– Il giudice a quo era stato investito della cognizione di una domanda di risarcimento del danno all'immagine di ANAS spa, promossa dal Procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti di un dipendente di detto ente, condannato per il reato di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen., e a carico del quale era stata emessa, in sede di gravame, sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
1.2.– Secondo la tesi del procuratore contabile, tale sentenza avrebbe comportato «l'avvenuta verifica dell'assenza di cause di proscioglimento, ai sensi dell'articolo 129 del codice di procedura penale» e l'adozione di un «provvedimento giurisdizionale irrevocabile contenente una statuizione sulla sussistenza del reato e sulla responsabilità dell'imputato», integrando, così, il presupposto processuale richiesto per la proponibilità dell'azione di cui si tratta dalla norma censurata, pur abrogata, e tuttavia richiamata dall'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, modificato dall'art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del d.l. n. 103 del 2009, come convertito, che disciplina la figura del danno all'immagine della PA.
1.3.– Il Collegio rimettente esclude di poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate a fronte della chiarezza del dato letterale e in adesione ai principi espressi dalla Corte di cassazione sulla diversità strutturale della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato (art. 129, cod. proc. pen.) rispetto a quella di condanna (art. 533 cod. proc. pen.).
Ciò posto, esso rileva che la differenza strutturale tra la sentenza di condanna, fondata sul canone dell'«al di là di ogni ragionevole dubbio» di cui all'art. 533 cod. proc. pen., e quella di estinzione del reato, da adottarsi ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen. ove manchi l'evidenza che «il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato», lascia comunque fermo, con riguardo alla seconda, l'accertamento del fatto dannoso integrativo del presupposto processuale all'azione, rivelando la irragionevolezza di una scelta legislativa diversa.
1.4.– Sospetta, pertanto, il giudice a quo che l'art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, ritenuto ratione temporis applicabile in ragione dell'epoca dei fatti, come richiamato dall'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, sia costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non considera la sentenza estintiva del reato come integrante il presupposto processuale per l'accertamento del danno allorquando vi sia stato un accertamento del reato in sede penale nel primo grado di giudizio, ma, per motivi dovuti al decorso del tempo, nel successivo grado il giudice abbia riscontrato la sopravvenienza della causa estintiva per prescrizione.
Tale previsione normativa si porrebbe in contrasto con «il combinato disposto dei precetti costituzionali rappresentati dall'articolo 3 (interpretato sia alla luce del canone di uguaglianza che di quello di ragionevolezza della limitazione) e dall'articolo 54 della Costituzione», in quanto, pur a fronte di condotte di pari disvalore tenute da soggetti titolari di pubbliche funzioni, determinerebbe conseguenze differenti in ragione del mero decorso del tempo «afferente a un diverso (ma connesso) procedimento».
Viene denunciato altresì il vulnus all'art. 24 Cost., per la compromissione della possibilità per la procura erariale di agire in giudizio per un credito risarcitorio in conseguenza di una irragionevole scelta legislativa, a fortiori per effetto di una lettura combinata dello stesso art. 24 Cost. con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.), facendosi dipendere l'esito dell'azione erariale, a fronte di condotte lesive dell'immagine della PA, da «un dato processuale estrinseco» che sfugge alla governabilità della parte pubblica ed attribuisce ulteriori conseguenze all'indebita protrazione del giudizio penale per l'imputato che si avvantaggia, insieme alla prescrizione, della non proponibilità dell'azione contabile.
Sarebbe violato inoltre l'art. 97 Cost., che tutela il buon andamento, anche finanziario, della pubblica amministrazione e costituisce il fondamento della risarcibilità del danno all'immagine della PA.
La previsione normativa censurata si porrebbe, infine, in contrasto con l'art. 103, secondo comma, Cost., da cui discende il principio dell'effettività della giurisdizione contabile, riconosciuto dall'art. 2 cod. giust. contabile.
Precisa, peraltro, il giudice a quo che il sospetto di illegittimità costituzionale riguarda, oltre al caso, rilevante nella specie, della prescrizione del reato nel giudizio di appello, successivamente alla sentenza di condanna di primo grado, la totalità delle ipotesi di estinzione del reato, le quali tutte presentano il medesimo modo di operare.
2.– In via preliminare deve dichiararsi l'inammissibilità dell'intervento del Procuratore generale della Corte dei conti.
I principi evocati a sostegno dell'ammissibilità, affermati nella giurisprudenza di questa Corte nei giudizi per conflitto di attribuzione tra enti, rivelano la loro estraneità e la conseguente loro irrilevanza nell'ipotesi in esame, relativa ad intervento spiegato in un giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
2.1.– Con riferimento a tale giudizio, questa Corte ha più volte avuto occasione di affermare che «la costituzione del pubblico ministero […] deve ritenersi inammissibile: infatti, nonostante al pubblico ministero debba riconoscersi la qualità di parte nel processo a quo, da un lato la peculiarità della sua posizione ordinamentale e processuale, dall'altro l'attuale disciplina (articoli 20,23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87; articoli 3 e 17 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), che tiene distinti il “pubblico ministero” e le “parti”, inducono ad escludere la costituzione in giudizio di tale soggetto» (sentenza n. 361 del 1998).
Né le recenti modifiche delle Norme integrative hanno mutato tale disciplina.
E nemmeno è ravvisabile un nesso tra lo specifico rapporto dedotto nel giudizio a quo e l'attività istituzionale svolta dal Procuratore generale della Corte dei conti, idoneo a legittimarne l'intervento nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, secondo quanto stabilito dall'art. 4, comma 3, delle Norme integrative.
L'intervento è pertanto inammissibile.
3.– Ancora in via preliminare, occorre esaminare l'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, per la ritenuta carenza di motivazione relativa alla pretesa violazione dei parametri fatti valere nell'ordinanza di rimessione a sostegno delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
3.1.– L'eccezione è priva di fondamento.
I termini delle questioni sollevate sono, infatti, indicati nell'ordinanza di rimessione con sufficiente precisione, risultando così soddisfatto l'onere di individuazione dei parametri evocati e delle ritenute ragioni delle violazioni denunciate, secondo quanto costantemente richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze n. 123 del 2021, n. 240 del 2017, n. 219 del 2016), salvo quanto sarà rilevato nel prosieguo con riguardo al carattere ancillare delle censure riferite agli artt. 24,54,97,111, secondo comma, e 103, secondo comma, Cost., rispetto a quella relativa all'art. 3.
4.– Quale ulteriore profilo di carattere preliminare si pone quello relativo alla individuazione, da parte del Collegio rimettente, delle disposizioni oggetto delle censure, ai fini dell'apprezzamento della rilevanza della questione.
4.1.– In particolare, va sottolineato che il denunciato art. 7, comma 1, della legge n. 97 del 2001, il quale prevedeva che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato», è stato abrogato dall'art. 4, comma 1, lettera g), dell'Allegato 3 al codice di giustizia contabile, a decorrere dal 7 ottobre 2016, e sostituito dall'art. 51, comma 7, dell'Allegato 1 allo stesso codice. Tale disposizione modifica il catalogo dei reati che costituiscono il presupposto sostanziale della proponibilità dell'azione di responsabilità per danno erariale, sostituendo ai reati propri commessi dai pubblici funzionari di cui agli articoli da 314 a 335 cod. pen. «i delitti commessi ai danni» delle pubbliche amministrazioni.
4.2.– Ciò posto, la valutazione prognostica del giudice a quo circa l'applicabilità della disposizione in questione alla fattispecie sottoposta al suo esame è adeguatamente motivata e quindi idonea a superare lo scrutinio “esterno” demandato a questa Corte (tra le molte, sentenze n. 189, n. 59 e n. 32 del 2021).
Essa è, infatti, plausibilmente ritenuta dal giudice a quo con riguardo all'epoca dei fatti e nella considerazione della natura “fissa”, o “statica”, del rinvio operato alla disposizione di cui si tratta dall'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, a mente del quale «le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97».
4.3.– D'altra parte, la circostanza che il richiamato art. 7, comma 1, sia stato sostituito dall'art. 51, comma 7, dell'Allegato 1 al codice di giustizia contabile non vale a qualificare in termini di non rilevanza la questione posta in ragione dei differenti contenuti delle due disposizioni destinate ad integrare il presupposto processuale di cui si tratta, individuato, come si è appena, chiarito, dalla prima di esse nella sentenza irrevocabile di condanna emessa in relazione ad uno dei reati propri di cui al Libro II, Titolo II, Capo I, cod. pen. e, dalla seconda, in quella emessa per i reati “a danno” della pubblica amministrazione.
Nella fattispecie in esame, invero, il dubbio è se, ai fini dell'integrazione del presupposto di azionabilità del danno all'immagine pubblica, insieme alla sentenza irrevocabile di condanna penale, valga anche quella di estinzione del reato, mentre non viene in rilievo il diverso estremo del “catalogo dei reati” diretto a circoscrivere, soggettivamente, la portata del primo.
La censura riferita alla norma investe, in particolare, le modalità attraverso le quali l'opzione legislativa di fondo di restringere quell'azionabilità – che come tale non viene messa in discussione – è stata «in concreto disciplinata» in fattispecie in cui «per il diverso assetto normativo ovvero per situazioni oggettivamente non dominabili, la durata del processo determini l'estinzione del medesimo».
5.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
5.1.– Come già ricordato da questa Corte, la giurisprudenza contabile aveva inizialmente elaborato un modello di danno all'immagine della PA come danno erariale tutelabile con il rimedio risarcitorio, proponibile senza alcun limite particolare, né in riferimento al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità di un preventivo accertamento del fatto in sede penale (Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Basilicata, sentenza 10 febbraio 1998, n. 28; sezione prima giurisdizionale centrale di appello, sentenza 28 giugno 1999, n. 209).
5.1.1.– Sulla premessa che il danno erariale all'immagine non è ricompreso nella materia della contabilità pubblica, per la quale soltanto vi è riserva costituzionale di giurisdizione della Corte dei conti (art. 103, secondo comma, Cost.), il legislatore è intervenuto con il già richiamato art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito, modificato, nella stessa data della legge di conversione, dall'art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del d.l. n. 103 del 2009, come convertito, contenendo la relativa nuova area di tale giurisdizione. La ricordata disciplina è stata poi ulteriormente modificata per effetto della successiva entrata in vigore del codice di giustizia contabile.
5.1.2.– Al riguardo, questa Corte ha avuto occasione di richiamare la peculiare connotazione che presenta la responsabilità amministrativa per danno erariale, in cui si inserisce quella da danno all'immagine della pubblica amministrazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall'ordinamento, connotazione che «deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998)» (sentenza n. 355 del 2010).
A differenza di quanto accade per la responsabilità civile, quella amministrativa per danno erariale ha carattere strettamente personale; il relativo debito risarcitorio non è trasmissibile agli eredi salvo il caso dell'illecito arricchimento del dante causa e, conseguentemente, dell'indebito arricchimento anche degli stessi eredi (sentenza n. 371 del 1998). Ancora, la responsabilità di cui si tratta, come dianzi chiarito, è connotata da una funzione non esclusivamente ripristinatoria del patrimonio dell'ente pubblico, «nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza» (sentenze n. 203 del 2022 e n. 371 del 1998); il risarcimento che ne consegue è parziario e non solidale, assoggettato al potere riduttivo del giudice contabile ed integrato, quanto all'elemento soggettivo, dal dolo o dalla colpa grave (ancora sentenze n. 203 del 2022 e n. 371 del 1998).
5.1.3.– Questa Corte ha ritenuto la scelta che presiede alla configurazione della responsabilità erariale «costituzionalmente legittima proprio evidenziando che, per i pubblici dipendenti, la responsabilità per il danno ingiusto può essere oggetto di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia (sentenza n. 453 del 1998)» (ancora sentenza n. 203 del 2022).
Il danno all'immagine trae origine dalla condotta del dipendente infedele che genera discredito nella collettività, determinando un pregiudizio che compromette il rapporto di fiducia e affidamento nelle istituzioni, nella percezione amplificata dal cosiddetto clamor fori o “diffusione mediatica” da parte dei mezzi di comunicazione, frequentemente connesso a tali condotte.
Il fondamento normativo della tutela dell'immagine della pubblica amministrazione si identifica, pertanto, nell'art. 97 Cost., cui i dipendenti pubblici e coloro che si trovano in un rapporto di servizio con l'amministrazione devono attenersi, elevando a rango costituzionale il valore dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa e quindi del prestigio dell'immagine della PA (sentenza n. 172 del 2005), da realizzarsi nell'adempimento dei doveri che gravano sul pubblico dipendente (art. 54 Cost.).
In questa prospettiva è pertanto «non […] manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell'immagine dell'amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica» (ancora, sentenza n. 355 del 2010).
5.2.– È nella cornice delle suesposte conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza costituzionale che vanno esaminate le odierne censure, riferite a norme dirette a porre limiti all'azionabilità del diritto al risarcimento del danno per lesione all'immagine della pubblica amministrazione, secondo la prospettazione del giudice rimettente.
5.3.– Dei plurimi parametri evocati a sostegno del sollevato dubbio di legittimità costituzionale, assume carattere centrale la dedotta irragionevolezza della previsione normativa in questione, che comprende, quale presupposto processuale di azionabilità da parte del PM contabile davanti alla Corte dei conti della domanda di danno pubblico all'immagine, le sole sentenze penali irrevocabili di condanna, con esclusione di quelle di estinzione del reato, precedute da sentenza di condanna in primo grado.
Le censure riferite agli ulteriori parametri in relazione ai quali si fa valere dal rimettente la violazione del diritto di difesa, dei doveri di disciplina ricadenti sui pubblici funzionari, della regola di governo dell'azione amministrativa, dell'effettività della giurisdizione contabile e della ragionevole durata del processo (artt. 24,54,97,111, secondo comma, e 103, secondo comma, Cost.), si palesano prive di autonomia funzionale, e, dunque, parte integrante del dedotto vulnus all'art. 3 Cost., di cui seguono le sorti. Esse, infatti, non fanno che sostanzialmente riproporre sotto altra veste le doglianze riferite all'art. 3 Cost. nel duplice aspetto della disparità di trattamento e della irragionevolezza della scelta del legislatore, e, pertanto, ne seguono le sorti.
5.4.– Sotto il primo profilo, la Corte rimettente sottolinea come egualmente «disdicevoli» siano la condotta del dipendente cui sia conseguita una condanna penale e quella non perseguita per maturata prescrizione del reato, con la conseguente incoerenza del differente trattamento loro riservato in punto di proponibilità dell'azione erariale di danno all'immagine.
Vengono in valutazione gli argomenti portati a sostegno della assimilazione tra la sentenza di condanna (art. 533 cod. proc. pen.) e quella con cui il giudice penale si trovi a dichiarare l'estinzione del reato (art. 129 cod. proc. pen.), nel rilievo che, in via presupposta, il “fatto dannoso” sottostante all'azione erariale non sia destinato a venir meno “ontologicamente” per via della prescrizione del reato, effetto che sortirebbe invece all'adozione di una sentenza di assoluzione che escluda la sussistenza del fatto integrativo, anche, del danno contabile.
5.4.1.– La censura non è fondata.
5.4.1.1.– Il giudizio proprio del proscioglimento adottato ex art. 129,2 comma, cod. proc. pen. – il quale prevede che, quando ricorra una causa di estinzione del reato, ma dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta – presuppone, come emerge dal tenore testuale della norma codicistica appena riportata, l'evidenza della prova della non colpevolezza dell'imputato, che deve emergere dagli atti, in modo a tal punto incontestabile che la valutazione del giudice finisca per appartenere più al concetto di “constatazione”, ossia della percezione ictu oculi, che a quello dell'“apprezzamento”, nella incompatibilità con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490).
La pronuncia di estinzione del reato presuppone, invece, soltanto la mancanza di cause evidenti per pronunciare la formula di merito, ma risulta del tutto priva di un accertamento della effettiva colpevolezza dell'imputato. La pronuncia di estinzione non risulta, dunque, idonea a superare la presunzione di innocenza dalla quale quegli è assistito.
5.4.1.2.– Non fondato è altresì l'ulteriore profilo di violazione del parametro dedotto, per il quale si censura il diverso trattamento riservato alla giurisdizione contabile rispetto a quella civile nei rapporti con l'accertamento proprio del giudice penale, per una pregiudizialità che si atteggerebbe come «fortissima» rispetto alla prima e che venuta meno, per il resto, lascia invece al giudice civile il potere di statuire sul risarcimento anche in caso di estinzione del reato.
Il principio dell'autonomia e del parallelismo che ispira nel vigente codice di procedura penale il rapporto tra giurisdizione civile e penale – di cui è chiara traccia, tra l'altro, nell'inefficacia del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile se il danneggiato ha esercitato azione civile ex art. 75, comma 2, cod. proc. pen., o nella irrilevanza delle cause estintive del reato agli effetti civili – e la diversa azionabilità cui risponde nella giurisdizione contabile l'illecito erariale sono espressione di sottese differenti rationes.
L'eterogeneità delle situazioni a confronto esclude la fondatezza della censura.
5.4.1.3.– Il parametro di cui all'art. 3 Cost. è ancora evocato a sostegno della denunciata irragionevolezza della scelta legislativa nella parte in cui il citato art. 17, comma 30-ter, non ricomprende la sentenza di estinzione del reato, per il correlato accertamento, tra il novero degli elementi di integrazione del discusso presupposto processuale.
La questione scrutinata ripropone sotto altra veste la medesima evidenza già vagliata da questa Corte, sicché resta identico l'esito di non fondatezza.
6.– Né rispetto alle questioni esaminate assume incidenza la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Rigolio contro Italia, del 9 marzo 2023, originata dal ricorso di un soggetto condannato in sede contabile per danno all'immagine della PA, nonostante il giudizio penale si fosse concluso in grado di appello con una sentenza di non doversi procedere per prescrizione, peraltro accompagnata da una condanna generica al risarcimento dei danni, dopo che in primo grado era stata pronunciata sentenza di condanna.
Tale pronuncia postula l'autonomia, dal punto di vista delle condizioni dell'azione, del giudizio innanzi alla Corte dei conti per responsabilità da danno alla immagine rispetto all'esito del processo penale all'interno di un quadro normativo nazionale in cui non figurava ancora la condizione di procedibilità che è oggetto della questione di legittimità costituzionale all'odierno esame, introdotta solo con l'art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, come convertito.
7.– Conclusivamente, le questioni devono essere dichiarate non fondate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l'intervento spiegato dal Procuratore generale della Corte dei conti;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche) e, in via consequenziale, dell'art. 51, comma 7, primo periodo, dell'Allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), sollevate, in riferimento agli artt. 3,24,54,97,103, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
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